La seduta del 24

Abbiamo iniziato parlando dell’incontro di gruppo. Di come mi sia sentito più libero. Abbiamo parlato di come volutamente D. sia stata dura con me. E quindi di quel momento in cui abbiamo lavorato sul disagio fisico che avverto nello stare al centro del gruppo. Della mia vergogna, del mio senso di colpa e di come cerco di suscitare compassione nella/e relazione/i. Siamo tormati a parlare della mia rabbia e della sua origine. Tutto nasce da un sopruso. Da quel sopruso che ha segnato negativamente la mia esistenza. Una rabbia che di certo ho imparato a coltivare e alimentare ogni giorno. Resto legato quasi indissolubilmente a quel sopruso. É da lì che traggo un motivo per vergognarmi e presentarmi agli altri in modo accogliente e deferente. Recito la parte dell’agnello ma é solo una maschera che indosso sopra un’altra maschera: quella del lupo. Due maschere (quella del lupo e dell’agnello) incomunicabili, a cui tengo, con cui mi identifico fortemente.

Due maschere (quella del lupo e dell’agnello) incomunicabili, a cui tengo, con cui mi identifico fortemente. A quel punto mi sono sentito chiedere perchè vado fiero della maschera del lupo. Ho risposto che è su quella maschera che mi sono strutturato e sono diventato quello che sono. Immagino che questa risposta non sia stata del tutto convincente. Forse, in qualche modo, l’agnello e il lupo si bilanciano. Al momento non so pensare a qualcosa di diverso. Penso che tutto questo sia all’origine della mia costante ambiguità. Abbiamo parlato degli anni di Università di come la fine delle mie relazioni sentimentali siano state dolorose. Mi sono sentito morire, come se mi mancasse il respiro. Di come io mi sia auto-boicottato attraverso delle lettere. Volevo essere odiato, non avere alcuna possibilità di spslerare rischiando di soffrire nuovamente. Forse, lì per lì pensavo che facendomi odiare, non avrei provato più niente. Non è stato così. Ho paragonato quel dolore a quello causato dall’umiliazione provocatami da mia madre quando mi chiese di rinunciare dal reiterare quel sopruso. Per lei è stato quello il periodo della mia vita in cui mi sono più umiliato. Credo che abbia ragione. Ho ricordato di come sia stato difficile sostenere il confronto con i miei amici, già laureati e con un lavoro. Stamattina pensavo anche, inevitabilmente, al confronto con mio fratello. Quando è terminata l’ora, nel soggiorno, per un attimo, mi sono sentito quasi sopraffatto.

La seduta del 30

Sono passati un paio di giorni e il ricordo comincia ad affievolirsi. Immagino che non sarà un racconto dettagliato ma più un resoconto manipolato e in parte immaginato. Arrivai in perfetto orario. Trovai la porta aperta. Lei si fece vedere in corridoio e mi disse che potevo entrare nel suo studio quando volevo. Mi sedetti davanti a lei e cominciai a raccontarle del motivo per cui avevo richiesto un incontro. Lei rimase in silenzio. Le parlai del mio occhio destro, di come il cervello non riesca bene a comporre le 2 diverse immagini “scattate”, di come quella dell’occhio dominante non riesca a compensare quella dell’occhio con la maculopatia. Del disagio che ho provato negli ultimi 2 mesi e che provo tuttora. Di come tutto questo sia collegato alla mia recente attività “paranoica”, al disagio sperimentato all’interno della relazione e a come nell’ultima settimana ne sia venuto più o meno a capo. Stando nella frustrazione, aprendomi con la mia compagna, con la meditazione. Le ho parlato di K. Delle sue paure riguardo al futuro, alla vecchiaia, a come cambierà il suo corpo. Ho parlato di cosa io e k. non siamo e di come possiamo comprenderci. Ci specchiamo l’un l’altra. Per quanto siamo così diversi, in questa fase della nostra vita possiamo aiutarci e collaborare insieme. Mi ha chiesto se posso accettare di non avere e vivere con lei l’intimità che desidererei. Le ho risposto di si, che non voglio più rifuggiarmi nel mondo dorato e immaginario della perfezione. Mi ha chiesto cosa mi impedisce di cercarla fisicamente. Non so cosa le ho risposto. Penso il rischio di provare del piacere. Le ho detto del veto che ha posto alle sedute con lei, alla volontà di non farsi seguire da una terapèuta che segue anche me. È rimasta in silenzio. Alla fine dell’incontro ho chiesto e ottenuto di abbracciarla.

Quello che chiude tutto

Sembra che sia scritto nelle stelle. Si forse è davvero questo il mio pesante destino. Cosa manca per chiudere? Bè, ad occhio un bel pò di cose. L’organizzazione/strutturazione generale e complessiva della mia giornata? Di certo non i suoi piatti. La comodità della mia quotidianità? Si, forse. Ho pensato a quando potrebbe essere dura vivere nella contraddizione e nella finzione. Posso solo lontanamente immaginare ad una ipotetica prima notte solitaria. Occhi sbarrati? Si, forse. Sospiri? Non so. E poi pensavo a quanto sia apparentemente semplice per alcuni affrontarsi in maniera civile, parlandosi in maniera chiara e diretta. Nonostante la paura. Forse perchè la verità (?) può essere liberatoria? Ne riparleremo. Forse.

Quello che sono

Qualcuno mi dica chi sono. Ma almeno sai quello quello che vuoi? Non ti sto chiedendo se sei felice. Si ma se me lo chiedessi sarebbe più semplice. Dici? Ok andiamo per esclusione. Non sono una persona che si butta, che rischia. Si, non amo il rischio. Quindi immaginiamo di essere una persona che ama la comodità. D’altro canto, per questo tipo di vita è funzionale avere pochi desideri. Viaggiare (anche in condizioni comode) non è comodo. Meglio starsene in casa. E fotografare? Se fotografare comporta viaggiare e magari fare le ore piccole per editare le foto, allora non è comodo. Ma comodo è starsene semplicemente a casa a non fare niente? si anche. Comodo è non vivere? Dipende da cosa si intende per vita. Soddisfare i propri bisogni? Non lo so. Magari giocare al risparmio. Se soddisfare i propri bisogni comporta il fare dei sacrifici allora no… ok quindi niente sacrifici. E gli altri? Pensi che chi stia vicino a te voglia questo? Di certo non puoi pretenderlo. Non lo pretendo. Bene. Quindi? Riassumendo? No, ora no… per oggi basta così

Il passo che non voglio fare.

Era evidente anche prima dell’ultimo incontro? Oppure è stato l’ultimo incontro a rivelare questa mancanza? È stato a causa della mia presunta dissociazione, della rabbia da me prodotta o è uno step coerente/conseguente alla luce del percorso da me effettuato fin qui? Mi chiedo se questo step sia legato a quella “soluzione” che lei non poteva suggerirmi poichè che se appresa non adopererei per uscire dall’impasse in cui mi trovo. C’è qualcosa a cui io rimango ostinatamente ancorato? Magari una paura paralizzant e di cui mi servo in maniera ricorrente? L’ultima domanda riguarda il problema di cui dover trovare la soluzione. Ne ignoro l’esistenza?

Come qualcosa che ti cade in testa

La paura della morte è simile alla paura che qualcosa prima o poi ti cadrà in testa. Solo che 1)non avrai tempo per rendertene conto 2)non sarà oggi e neanche domani. Il fatto che non si saprà il momento per certi versi può essere considerato un vantaggio. E’ qualcosa che si avvicina col passare del tempo o se sopraggiungono malattie gravi ma anche questo, paradossalmente può essere considerato un vantaggio perchè sia il tempo che la malattia indeboliranno il nostro fisico e la nostra mente. Abbiamo paura perchè ci proiettiamo in avanti, a quel momento ma quando avverrà, per malattia, per vecchiaia o per un brutto incidente, non saremo letteralmente più noi.

Il limite della rabbia

Ho sentito di essere arrivato al mio limite. Era come se aver dato voce alla mia rabbia al di fuori di me (durante la prima rappresentazione e nel corso dell’incontro con la Daniela) avesse fatto materializzare quel lato ombra che ero solito relegare nei recessi della mia mente. L’ombra doveva rimanere nell’ombra per non mostrare ciò di cui più vergognavo. E ora che l’ombra è venuta alla luce, che fine farà  quell’immagine di uomo innocuo, sereno, compassionevole che tanto mi sono affannato a proiettare al di fuori di me? E ancora: ho un problema di cattiva gestione della rabbia? E quali conseguenze avrebbe su di me se continuassi a produrre e accumulare la rabbia (come ho sempre fatto) se nza poterla mai sfogare? E davvero è quello che voglio è sfogare la rabbia anche all’interno di un contesto “protetto”?

il puzzle

I vari pezzi di me erano sul tappeto: c’era solo da metterli insieme. Alcuni pezzi mierano stati indicati in passato durante le sedute (il congelamento, l’evitamento, la mancanza di autoaffermazione, la necessita di giocare). Altri erano emersi di recente (la mancanza di fiducia, la paura della morte, la paura dell’umiliazione, la rabbia). Pensare alla morte e vederla per quello che è (cioè come un evento naturale che arriva quando il corpo e la mente hanno perso le loro funzioni e forse la voglia di vivere) era la prima cosa da cui partire. Il nesso tra la morte e la mancanza di fiducia è durante l’ultimo incontro. Alla mancanza di fiducia è legata anche la mia autostima e la valutazione negativa nei confronti di tutte le esperienze e le sfide che la vita ci presenta. Anche per questo, per il mio carattere e per una sorta di immaturità, tendo sottrarmi ad anbandonare il campo. Perchè la sconfitta è assicurata in partenza. Una sconfitta nella sconfitta. Una umiliazione da evitare che mi porta al congelamenti. È da qui che ha origine la rabbia che finisce inesorabilmente per alimentare la mia disistima e la mia mancanza di fiducia.

La ricorsività della rabbia

L’origine sta nella inazione, in una mancata autoaffermazione, in una volontaria e immatura resa, in un congelamento di origine traumatica. Una rabbia verso me stesso che si manifesta tramite proiezioni e che è destinata ad alimentare la mia autostima, la mia mancanza di fiducia e nella perdita di entusiasmo, soprattutto se non trova sfogo. Una rabbia che così facendo finisce per essere ricorsiva.A furia di produrla, penso di essere diventato bravo a mascherarla (come è successo dopo la rappresentazione teatrale). Accadrà altre volte di rimanere impreparato, freezzato. Di scegliere di non intervenire. La rabbia verrà ancora fuori ma la consapevolezza della sua pericolosità per me stesso potrebbe essere d’aiuto a mettermi in gioco un pò di più. Essere attivo è diventato una priorità a cui cercherò di non sottrarmi con facilità come ho fatto in passato.

Come se fossi un bambino

Avevo già provato a trasferire la “colpa” di un bambino nella testa di un uomo. Ora sembra che abbia provato a trasferire la voglia di vivere e le paure di un uomo in quelle di un vecchio. Non aveva senso il primo trasferimento e non ha senso il secondo. La paura della morte ci sarà sempre ma quell’immagine di me che perde coscienza e scivolo nel sonno eterno mi è sembrata accettabile e tale da darmi quella forza e quell’entusiasmo per affrontare le mie esperienze in maniera positiva, come se fosse un gioco, come se fossi un bambino.

Morte funzionale vs morte naturale

Quante volte moriamo nella nostra vita? Tante. Quasi tutte (togliamo pure il quasi) non in maniera naturale. Ci vediamo morire mentre chiediamo un altro respiro e ancora più vita. I pensieri sulla nostra fine sono insostenibili. Non in un corpo ormai impossibilitato a continuare il suo viaggio e pronto a fermarsi. Concepiamo la morte come qualcosa di irreparabile e incalcolabile. Una “perdita” che non può essere “colmata”, che lascerebbe il mondo in balia di se stesso (come se ce ne importasse davvero qualcosa). Sono pensieri simili a quelli che sopraggiungono dopo un fallimento, una sconfitta inaccettabile che non ammette repliche e riscatti. Una sconfitta ingiusta e inspiegabile. Di fatto una umiliazione. L’ultima umiliazione. Questa concezione della morte è indotta dal Sistema, che ci ricorda come noi, esseri votati al fallimento, non possiamo nulla contro di esso. La morte è funzionale ad un sistema che a dispetto di tutti non può perire e che può solo replicarsi e rinforzarsi. È un sistema di morte, che trae vita proprio dalla nostra morte. Ne è la prova il gap fortissimo e incolmabile tra nord e sud del mondo. Il primo (il Nord) che diventa sempre più ricco ai danni del secondo (il Sud) che si impoverisce sempre più e muore. Ogni giorno, ogni ora, ogni secondo, con tutti i suoi abitanti. La morte dei più per sostenere il tenore di vita sempre più inarrivabile di pochi. Un processo, quest’ultimo, divenuto nei secoli irreversibile, innaturale e… inumano.

Da uno schema ad un altro

1)Mancanza di fiducia — tristezza — rabbia verso gli altri/verso me stesso
2)Mancanza di fiducia — credere nella sconfitta e nella umiliazione —resa/congelamento — inazione —rabbia causata dalla passivitá, dalla mancanza di autoaffermazione e dal confronto con gli altri.
La mancanza di fiducia mi porta a credere nella sconfitta. La sconfitta che viene vissuta come umiliante. La resa come via di fuga nella vana illusione di superare e non vivere l’umiliazione. La resa mi porta ad abbandonare la lotta.  L’inazione (la passivitá), unitamente al confronto con gli altri, genera rabbia verso me stesso e alimenta la sfiducia.

Dietro la mancanza di fiducia il pensiero/ la paura della morte, inaccettabile per il nostro ego, non concepita come qualcosa di naturale ma di traumatico, capace di condizionare negativamente le nostre esperienze.

L’umiliazione della sconfitta

Non so se sia cambiato il mio modo di vedere il futuro. Penso che in passato mi sia sforzato o illuso di intravedere qualcosa che non mi facesse troppa paura. Un po’ come vedere da un finestrino completamente appannato. Non vedi niente, percepisci però la direzione verso cui stai andando e il colore di fondo (sullo sfondo). Quello che in fotografia chiamano il colore dominante. E mentre procedi quello che puoi fare per non impazzire è utilizzare l’immaginazione o semplicemente illudermi che improvvisamente lo sfondo diventi meno nero. A conclusione dell’emdr, alla base della decisione di continare con i nostri incontri, c’era una illusione di questo tipo. Una illusione forte che mi portò a partecipare agli incontri di gruppo. Tutto questo ha portato piano piano a togliere la condensa al vetro che avevo davanti agli occhi. Non sono sicuro che col vetro appannato, approssimandoci alla meta, la paura sia meno forte. Hai definito questo percorso come un percorso di autenticità. Mio zio, il fratello di mio padre, è stata una spina nel fianco durante la sua esistenza. Amava dirti le cose in faccia… Suoleva ripetere che alla fine, tutti i nodi vengono al pettine. Ecco, non so se sono venuti al pettine quel 22 giugno ma ha contribuito a farmi perdere tutta quella fiducia/speranza/illusione necessaria per continuare il lavoro. Il lavoro in modalità di sopravvivenza abbia scatenato una reazione conservativa così eccessiva da indurmi ad abbandonare. È quello step che, come dicevi tu, io non voglio fare, che mi fa perdere motivazione nelle cose che faccio. È il mio alibi che mi fa lasciare il campo e annullare la partita per non vedermi sconfitto. Perchè quello che non accetto è la sconfitta e soprattutto l’umiliazione della sconfitta. Di fronte a quella prospettiva piuttosto che lottare preferisco mollare (una valigia vale un’altra). Smetto di giocare e comincio a mettere in scena la mia tragedia, con tanto di personaggi cattivi, rei di impedire il mio diritto sacrosanto a vivere la mia vita e ad esserne in qualche modo soddisfatto. E cosa alimenta la rabbia? Ciò che alimenta la rabbia è vedere gli altri concludere il gioco, agire… La mia passività. Tutto quello che non ho fatto e avrei potuto fare.

Ti scrivo da qui

E’ probabile che delle cose che hai detto io abbia voluto capire solo quello che mi faceva comodo e che forse sono in cerca solo di scuse o falsi alibi… ma a distanza di 2 giorni mi restano in testa 2 cose: la prima: 1) hai detto che lo step mancante (che al momento sembra sfuggirmi) forse per mia comodità, non ho intenzione di farlo. 2) che quello che occorre fare per uscire da questa situazione non puoi dirmelo perchè altrimenti non andrei in fondo. Probabile. L’ultima cosa che devi fare è consolarmi. E’ giusto. Non può essere il mio specchio a dirmi quello che devo fare e nè a dirmi quanto sono bravo. Inevitabilmente però è venuta meno la fiducia. Era scontato probabilmente. Quando hai parlato di dissociazione non ho detto niente ma la sera stessa mi sono sentito male per quella “diagnosi”. Perchè? Perchè è sbagliata. Quando sono entrato in modalità sopravvivenza non mi sono più ripreso. Poichè non te ne sei accorta hai dedotto che ero dissociato. Ti faccio solo notare che dopo quella rappresentazione non mi sono comportato come se nulla fosse accaduto. Non ho parlato con nessuno (salvo chiederti conferma del giorno dell’appuntamento) e poi sono andato via. Si, sono arrabbiato con me stesso e forse pretendo troppo da te. Probabile. Quello che so è che ora tutto il percorso (utilissimo fino a qui) mi sembra che non porti da nessuna parte. Un binario morto. Si, è subentrata la diffidenza. Certo, pensare così mi fa comodo ma una parte di me vuole dimostrarti che anche se è impossibile tornare indietro, è meglio fermarsi che continuare a farsi del male. Aspetterò. Aspetterò che la rabbia che serve a nascondere la tristezza causata dalla mia mancanza di “fede” lasci questo corpo.