Quante volte moriamo nella nostra vita? Tante. Quasi tutte (togliamo pure il quasi) non in maniera naturale. Ci vediamo morire mentre chiediamo un altro respiro e ancora più vita. I pensieri sulla nostra fine sono insostenibili. Non in un corpo ormai impossibilitato a continuare il suo viaggio e pronto a fermarsi. Concepiamo la morte come qualcosa di irreparabile e incalcolabile. Una “perdita” che non può essere “colmata”, che lascerebbe il mondo in balia di se stesso (come se ce ne importasse davvero qualcosa). Sono pensieri simili a quelli che sopraggiungono dopo un fallimento, una sconfitta inaccettabile che non ammette repliche e riscatti. Una sconfitta ingiusta e inspiegabile. Di fatto una umiliazione. L’ultima umiliazione. Questa concezione della morte è indotta dal Sistema, che ci ricorda come noi, esseri votati al fallimento, non possiamo nulla contro di esso. La morte è funzionale ad un sistema che a dispetto di tutti non può perire e che può solo replicarsi e rinforzarsi. È un sistema di morte, che trae vita proprio dalla nostra morte. Ne è la prova il gap fortissimo e incolmabile tra nord e sud del mondo. Il primo (il Nord) che diventa sempre più ricco ai danni del secondo (il Sud) che si impoverisce sempre più e muore. Ogni giorno, ogni ora, ogni secondo, con tutti i suoi abitanti. La morte dei più per sostenere il tenore di vita sempre più inarrivabile di pochi. Un processo, quest’ultimo, divenuto nei secoli irreversibile, innaturale e… inumano.